Dagli all’untore

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Racconta Alessandro Manzoni nella Storia della colonna infame (edita per la prima volta nel 1840) che due milanesi, Guglielmo Piazza, commissario di sanità, e Giangiacomo Mora, barbiere, il 21 giugno 1630 vennero accusati – sulla base dell’isteria popolare fomentata da Caterina Rosa e Ottavia Bono, che dichiararono che il Piazza “ungeva” le case ed i muri per propagare la peste, e  senza uno straccio di prova che non fossero le macchie di inchiostro sulle mani del Piazza il quale si era appoggiato incautamente a muri e porte – di aver procurato la pestilenza in città attraverso la non provata azione di untoraggio e conseguente spargimento di infezione. Arrestati, torturati senza tregua, illudendosi di uscirne con una confessione, falsa quanto le accuse, coinvolsero altri cinque innocenti, ma il 27 luglio vennero egualmente condannati a morte, e la pena viene eseguita il 2 agosto.

La colonna infame che fu eretta, affinché rimanesse a ricordo dell’ignominia perpetrata da quei due sventurati, ingiustamente torturati e ancor più ingiustamente condannati, si trasformò invece in un monumento di condanna per i loro torturatori e accusatori, che avevano invocata una sentenza illegale e irrazionale, accontentando e sfrenando al tempo stesso gli umori più animaleschi della folla impaurita e, cosa più grave, di organi giudiziari influenzabili più dalle pressioni di piazza che dal culto del diritto. L’illuminismo giuridico milanese – quel clima culturale che influenzò anche gli orientamenti del giovane Alessandro Manzoni, e che si giovava della cultura e civile e legale di Cesare Beccaria, Alessandro e Pietro Verri, con cui Manzoni intratteneva legami parentali – fu la culla di quell’orientamento culturale che avrebbe dato vita allo Stato di diritto, in virtù del quale ogni potere e chi lo esercita è sottomesso alla legge, e nessuna è persona può essere privata della libertà e della vita se non sulla base di una legge, della sua corretta applicazione e soprattutto della sua applicabilità al caso che la riguarda.

La colonna infame e la sua calunniosa iscrizione furono rimosse nel 1778, un anno dopo che Pietro Verri per la prima volta raccontò la terribile storia nelle sue Osservazioni sulla tortura, caposaldo annunciante un’età nuova in cui il diritto sarebbe stato l’architrave su cui edificare le relazioni sociali, e l’applicazione del diritto avrebbe dovuto improntarsi a veri criteri di legalità sostanziale. Se Leonardo Sciascia ha ragione quando scrive che il passato non deve essere mai dimenticato perché non ritorni con i suoi fantasmi, occorrerebbe riflettere ogni volta che la legalità viene sconfitta in nome dell’irrazionale bilioso.

Un giovane sprovveduto, punito come conviene secondo la legge perché la sua sventatezza ha provocato l’irreparabile perdita di una vita umana, la studentessa Marta Russo, paga il suo delitto con l’esecrazione a vita, con una ferocia ancor maggiore di quella riservata a omicidi dolosi o a stupratori seriali. Nulla poena sine legge, decreta il principio di legalità, e per questo Giovanni Scattone, l’incauto sparatore, ha subito una giusta condanna per omicidio colposo, decretato con sentenza di un Tribunale di Stato. Aver provocato la morte tragica della giovane Marta Russo, uccisa nei viali dell’Università di Roma “La Sapienza” da un colpo di pistola (ma come possono circolare in una stanza di un Ateneo armi con le quali provare il brivido della trasgressione a spese di una vita umana ?), ha meritato all’autore del gesto infame una condanna ed un giudizio senza dei quali lo Stato di diritto evaporerebbe. Eppure viene da chiedersi se può, con tutto questo, nuovamente essere accettata una colonna infame perpetua ai danni del colpevole, che – a differenza di violenti e parricidi, che riescono spesso a trovare benevola ed umana comprensione nella folla – sarebbe per questo marchiato in eterno, impedito persino di esercitare la sua legittima aspettativa di lavoro. Le urla di nuove Caterina Rosa e Ottavia Bono – aizzate da una informazione pronta a costruire l’immagine di una piazza, in fermento per lo sdegno e l’onta subita, insorta a negare la ottusità della legalità in nome della giustizia supposta – chiedono a nome dell’opinione pubblica alla politica e all’amministrazione della giustizia di piegarsi ai suoi voti, dimenticando quella anticaglia sopravvissuta che è lo Stato di diritto.

Le urla, i risentimenti (anche quelli comprensibili) e gli umori hanno sostituito procedure legali ed organi legittimi, tanto da riuscire a far accantonare la legalità che decreta la pena ma anche la possibilità del reo di poter tornare alla vita civile (il quale alla prima dovrebbe sempre seguire) di un uomo che ha pagato il suo debito, acquisendo – secondo le prescrizioni di legge previste per tutti i cittadini di uno Stato di diritto – un posto di lavoro. Possono le urla della piazza decretare – sostituendosi alle leggi e alle commissioni preposte al giudizio di merito sulle competenze di un docente, e di fatto prevalendo sul diritto stesso con l’invocare la specialità del caso – l’inabilità a questo o  quella funzione (l’insegnamento negato ad un omicida colposo, chiedendo per questo reato l’interdizione perpetua da ogni ufficio), e dunque sostituendo la persecuzione alle procedure legali ?

Non comprendo come a Giovanni Scattone debba essere preclusa la via del recupero nella società che invece giustamente spetterebbe anche ad assassini e pedofili. Non comprendo, perché credo che chi intendesse sostenere questa tesi negherebbe legalità e Stato di diritto. Và, và, povero untorello…..

GIUSEPPE ACOCELLA