In Italia, come in altri paesi, gli scandali finanziari non sono mancati. Per arginare il fenomeno, alla fine dell’800 – dopo le vicende della banca Romana – venne istituita la Banca d’Italia, alla quale spettò, tra gli altri, il compito di vigilare sugli istituti di credito. Funzione che venne enormemente rafforzata dalla riforma del 1936, in virtù della quale l’indipendenza della banca centrale divenne il perno di penetranti poteri di controllo sull’intero sistema bancario. In punto di diritto (meglio sarebbe dire, in astratto) le banche dovrebbero essere in possesso di un “credito” inossidabile. Credito – ben si intende – nel senso di affidabilità a prova di bomba, poiché alla banche i cittadini rimettono i loro risparmi nella certezza che saranno custoditi con la massima cura.
Non vi è dubbio che, negli ultimi decenni, la crescente finanziarizzazione dell’economia mondiale abbia fortemente modificato gli equilibri tra sistemi economici e sottosistemi bancari, creando i presupposti per smottamenti clamorosi. Il crack che nel 2007 ha sconquassato l’economia dell’intero occidente venne favorito dalle norme che avevano liberalizzato negli Stati uniti l’emissione di titoli e dall’abuso della concessione di mutui senza copertura. Norme attraverso le quali operatori finanziari senza scrupoli si incunearono selvaggiamente, operando a danno dei risparmiatori. Anche nel nostro paese la crisi economica dalla quale ancora fatichiamo ad uscire è, in larga parte, figlia delle storture determinate dall’abuso di strumenti finanziari a sostegno (?) dell’attività economica.
Letta in tale contesto, la vicenda della Banca dell’Etruria – e delle altre tre banche salvate per decreto – offre spunti niente affatto confortanti riflessioni su uno dei gangli decisivi dei sistemi economici. Per tempo si poteva e doveva capire lo stato di insolvenza nel quale si stavano avviando banche che navigavano a vista, tentando di restare a galla con avventurose e poco chiare operazioni di fusione. E che, soprattutto, tentavano di salvarsi dal naufragio, vendendo a risparmiatori ignari o propensi a rischiare anche l’osso del collo titoli spazzatura. Le vicende che ne sono seguite mettono a nudo i meccanismi attraverso i quali – a dispetto del principio costituzionale di tutela del risparmio e in spregio all’obbligo politico di contrastare le iniquità sociali – si è potuta consumare una oscura operazione che ha le caratteristiche di vera e propria legalità illegale. Il caso ha scoperchiato le magagne di un sistema, nel quale i comportamenti inequivocabilmente contrari all’etica pubblica degli amministratori delle banche commissariate hanno trovato coperture “legali” in norme ad alto tasso di opacità. La tutela dei cittadini/risparmiatori si è rivelata – nonostante i proclami governativi (di ieri e di oggi) e le troppe chiacchiere da talk show – l’ultimo pensiero dei governanti.
Le ragioni di una così sconcertante deriva sono molti. E sono da ricondurre a fenomeni che travalicano le nostre frontiere nazionali. Il “mostruoso connubio” tra legalità formale e illegalità sostanziale che si è progressivamente andato diffondendo nel settore creditizio trae origine dallo sbilanciamento tra economia e diritto. La prima intesa non come scienza o dottrina, bensì come massa d’urto del capitale finanziario. Una quantità abnorme di risorse finanziarie che viene manovrata con criteri che scompaginano le categorie del diritto, piegandole ad interessi di compatta e granitica forza. In tale scenario il diritto – inteso come sistema positivo di definizione, approvazione e applicazione di regole fondate su criteri di giustizia sociale – viene travolto con crescente facilità. Di fatto, le regole che permettono agli operatori finanziari di svolgere il loro lavoro “legalmente” sono come una sorta di colabrodo: il liquido può scorrere senza che si possa far nulla per fermarlo. L’economia, inoltre, non prevale soltanto sul diritto come sistema, ma anche sui “diritti” dei cittadini e dei risparmiatori.
Vi è da tener conto che sul versante del sistema bancario scontiamo la debolezza del nostro Paese nello scacchiere europeo. Mentre altri paesi (Germania in primis) hanno saputo e potuto adoperarsi per i salvataggi bancari con risorse statali, in Italia è stata diffusa per anni la storiella della solidità del nostro sistema bancario. Solido (o, meglio, solidificato con il sostegno pubblico: vedi il caso Monte dei Paschi) soltanto per quanto riguarda i colossi del sistema, ma fragilissimo nel reticolo delle banche medio/piccole. E, al solito, sono i deboli a pagare. C’è voluto il morto per “cambiare verso” all’azione del Governo, il quale fino ad adesso si era – di fatto – preoccupato soltanto di salvare le banche. E ora cerca di correre, tardivamente, ai ripari con un decreto-legge del quale andrà verificata la fondatezza giuridica e la applicabilità. Infatti, il quadro delle regole è quanto mai ingarbugliato, poiché le misure di salvaguardia per i risparmiatori rischiano di trovare il muro dell’UE, costituito dal divieto di fornire aiuti “di Stato” a soggetti privati. Al riguardo la difficoltà è obiettiva, ma non solleva il governo attuale, né quelli precedenti, dalle loro responsabilità. Il punto di rottura al quale si è giunti ha origine nell’opacità delle normative e nella totale latitanza del sistema dei controlli. Le norme che regolano il sistema bancario – tetragonamente capace di difendere se stesso, ma assai meno di rispettare i diritti dei risparmiatori – sono un macroscopico esempio di frattura tra legalità formale e giustizia sostanziale. Sono, in altri termini, la prova che, nelle pieghe delle democrazie, si fanno strada – in modo a volte strisciante, altre volte in maniera dirompente – le ambiguità della legalità, derivanti da criteri del governare che non riescono a “prendere le misure” alle storture presenti delle nostre società e non sono in grado, conseguentemente, di fare i conti con le dinamiche effettive dei sistemi economici.
Nel caso del salvataggio delle quattro banche italiane a vacillare è, in primo luogo, la credibilità delle istituzioni di garanzia, che non hanno saputo esercitare in maniera adeguata il loro ruolo di controllo. Al riguardo sorgono spontanee alcune domande. Cosa ha fatto la Banca d’Italia, autorità indipendente e prestigiosa, titolare del potere/dovere di controllo sulle banche? Nessuno (a cominciare la suo Governatore) è responsabile di ciò che è accaduto? Perché – dopo ben tre ispezioni nel giro di quattro anni – la banca dell’Etruria non è stata commissariata? Andava tutto bene? Evidentemente no. Come può il governatore della Banca d’Italia parlare di comportamento ineccepibile allorché si scopre che agli amministratori di una banca (che dovrebbero essere i custodi e i garanti di coloro che depositano e investono i loro soldi) viene permesso di contrarre fidi con la banca stessa? ali meccanismi sono il prodotto di una nebbiosità delle regole, utile soltanto a coprire gli interessi dei proprietari e delle loro associazioni (ABI in testa). Analogamente, cosa ha saputo fare la Consob, se non sostenere di non avere poteri adeguati ad arginare eventuali aggiramenti delle regole che presiedono all’attività delle società quotate in Borsa? Delle due, una: se ciò è vero, la Consob va chiusa o dotata di poteri sufficienti; se invece i poteri di vigilanza non sono stati esercitati correttamente, ne risponda il vertice. Peggio ancora la proposta di attribuire alla Consob l’arbitrato nelle controversie tra banche e risparmiatori. Un’autorità di controllo non dovrebbe essere, nel contempo, un giudice. Storture simili esistono già nel nostro ordinamento e non dovrebbero essere alimentate.
Di fronte a vicende siffatte si è costretti, per l’ennesima volta, a registrare una sconcertante debolezza progettualità politica, nonché uno sconfortante deficit di etica pubblica. La quale, all’opposto, dovrebbe essere il primo presidio di una democrazia che si voglia chiamare tale. È tempo di riflettere sulla necessità di rivedere radicalmente le regole della vigilanza sulle intermediazioni finanziarie, provando a fondarle su presupposti non confinati nella legalità formale, ma orientati a garantire equità e giustizia sociale.
Stefano Sepe
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