Periodicamente i media ci propongono qualche vicenda giudiziaria, specie
penale, che suscita sconcerto o almeno sorpresa. Spesso la protagonista è una
donna e dunque alimenta in misura maggiore la reazione del comune cittadino.
Penso ad una sentenza che ne riforma un’altra riducendo magari a metà la pena
per il colpevole di un delitto che sembrava meritevole, per il giudice della
fase precedente, di una pena molto vicina all’ergastolo: semplicemente perché
l’uomo, che aveva da poche settimane una relazione con la vittima, sarebbe
stato in preda ad una «tempesta emotiva». Penso alla sentenza resa da un
collegio interamente femminile che non ha considerato stupro un rapporto con
una donna non bella e «mascolina», non importa se non consenziente. Ma penso
anche a quelle imputazioni gravi che non resistono al secondo o al terzo grado
di giudizio per qualche clamoroso errore o anche al riesame che già in primo
grado sconfessa il lavoro investigativo durato anche più di qualche settimana o
mese o perfino anni; o a quei permessi durante i quali il «bravo» detenuto
commette un ulteriore delitto. E che dire poi di una sentenza del giudice delle
leggi, che ha ritenuto non irragionevole una norma che vieta la chiamata in un
dipartimento universitario di un parente entro il quarto grado o di un affine
di uno dei professori, ma tace sulla chiamata di un coniuge.
In breve, il coniuge sì, ma il fratello del coniuge no: eccentricità del
legislatore distratto che ben poteva essere risolta con una lettura
intelligente già del giudice comune.
Il cittadino si domanda dove sia la tanto celebrata certezza del diritto.
Alcuni di questi episodi possono collegarsi fisiologicamente ai diversi esiti
dovuti ai tre gradi di giudizio e dunque ad una diversità che va salutata con
favore da chi ritiene che sia riuscita a correggere una decisione
clamorosamente eccentrica. E’ questo il caso, ad esempio, della pronuncia della
Cassazione di riformare la sentenza cui accennavo prima della Corte di appello
di Ancona che, nel 2017, aveva assolto due giovani sudamericani accusati di
aver violentato quattro anni prima una ragazza peruviana a Senigallia. La
singolare pronuncia aveva fatto scalpore, in quanto aveva rilevato che
l’aspetto «mascolino della vittima … come la foto del fascicolo processuale
appare confermare» fosse rilevante per giudicare uno stupro. Per fortuna, la
Cassazione ha ribaltato completamente il percorso motivazionale e dichiarato
che l’aspetto fisico della vittima non è un elemento rilevante ai fini della
valutazione di atti di stupro e che la sentenza di appello era fondata dunque
su elementi «irrilevanti in quanto eccentrici rispetto al dato di comune
esperienza rispetto alla tipologia dei reati in questione».
Altri episodi, tuttavia, si collocano in un quadro complessivo del sistema
giustizia che presenta qualche criticità, da sempre censurate anche fuori dai
nostri confini, non solo quanto all’irragionevole durata dei processi; e che
meritano qualche riflessione più generale.
Anzitutto, le leggi sono pezzi di carta, consegnati in elenchi di vario tipo
(codici, raccolte varie, Gazzette Ufficiali e altro), dove il giudice trova la
soluzione dei casi che gli sono sottoposti. Il giudice è chiamato a far vivere
quei pezzi di carta rispetto ad un caso concreto, proiettandone il senso anche
in un contesto di valori più alto, magari costituzionale e non solo, alla
ricerca eventualmente di un parametro di legittimità ulteriore rispetto alla legge
che possa aumentare il tasso di tutela dei diritti dei singoli. Questa
operazione intellettuale non è sempre agevole, anzi lo è oggi sempre meno
rispetto al passato, per il numero enorme, diciamo pure eccessivo, di leggi e
leggine scritte magari in fretta, troppe volte su spinte in senso lato
populiste, comunque in un gergo non facilmente comprensibile, integrate con
interventi successivi spesso non coerenti, che richiedono una ricerca certosina
e affannosa del comma giusto e non abrogato, così come integrato e modificato e
come risulta da più testi non sempre coordinati in una versione in vigore. Il
tempo vola, le interpretazioni opinabili non sono soltanto possibili, ma
probabili. La tentazione del distacco più o meno voluto e trasparente dalla
norma è forte, talvolta nasconde un protagonismo umano, frutto di delusioni e
illusioni insieme, di chi soffre la pesantezza di una burocrazia fuori misura,
di un apparato carcerario che non regge il confronto con Paesi di media
civiltà, dell’insufficienza degli strumenti di supporto e di conforto per
l’esercizio della funzione strettamente giurisdizionale, della pressione di una
classe forense a sua volta afflitta dalle criticità più disparate. A volere
infine tacere dell’effetto diretto e immediato di questo scenario
sull’economia.
C’è poi il limite dell’insofferenza per il quotidiano, per la routine, che
porta a desiderare un intervento non solo distaccato dalla norma ma frutto di
un momento emotivamente significativo, un atto di ribellione magari
inconsapevole rispetto alla normalità, che però si traduce in uno scoop
giornalistico che fa discutere per giorni, certo non di più, nei bar del
quartiere o nei corridoi dei palazzi di giustizia. Il fenomeno, beninteso, è
fortunatamente solo limitato ad una minima eccezione rispetto alla serenità e
all’equilibrio della grandissima maggioranza dei magistrati. Il giudice è
comunque un essere umano, con tutti i suoi pregi e i suoi difetti, le emozioni,
le sensibilità, i momenti con pensieri a volte lontani dalla realtà costruita
dall’immaginario collettivo, ma che sono vicini all’ego di ognuno di noi. C’è,
infine, la consapevolezza che le esigenze e gli interessi del corpo sociale
hanno una velocità di aggiornamento e di innovazione molto maggiore rispetto
sia al legislatore, sia a chi dell’opera di quest’ultimo è chiamato a fare
applicazione, sì che anche il distacco dalla norma scritta, se non si esagera,
non è necessariamente un male assoluto. E qui mi permetto una citazione di
Calamandrei dalla nota arringa per Danilo Dolci del 30 marzo 1956 dinanzi ai
giudici penali di Palermo: «Vi sono tempi di stasi sociale in cui il giudice
può limitarsi ad essere il fedele secondo del legislatore, il seguace che
l’accompagna passo per passo, ma vi sono tempi di rapida trasformazione in cui
il giudice deve avere il coraggio di esserne il precursore, l’antesignano,
l’incitatore». Tornando agli esempi ricordati di vicende penali, c’è chi teme
un ritorno al delitto d’onore con tutto quanto ne segue in termini di
attenuanti e di pene; c’è chi – a difesa dei giudici – sostiene correttamente
che è necessario leggere la sentenza nella sua integrità per coglierne il
percorso argomentativo e non fermarsi ad un solo frammento. Nondimeno, lo
sconcerto del cittadino comune resta ed è di sicuro maggiore per i casi di
violenza di genere, che per molti meriterebbe almeno un inasprimento della
pena: per «qualsiasi violenza diretta contro una donna in quanto tale o che
colpisce le donne in modo sproporzionato», secondo la formula della Convenzione
del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei
confronti delle donne e la violenza domestica, stipulata ad Istanbul il 23
maggio 2011e in vigore dal 2014.
(Il Mattino 23.04.2019)