Fin dalle origini della storia dell’Italia unita il principio di legalità si è rivelato tema centrale nella vita pubblica. Dopo un secolo e mezzo – in occasione del 150° anniversario – si sono sollevate voci e sono stati aperti dibattiti appassionati sull’unificazione e sul senso del “collante” che quella storia ha tenuto insieme, fino a mettere in discussione la condivisione dell’etica pubblica che ne ha guidato i passi. La lacerazione tra aree del paese e nei confronti del Sud sono apparse il maggior problema dell’unità difficile. In questo contesto la legalità apparve da subito la vera sfida che avrebbe connotato la natura dello Stato e della comunità nazionali. Già nel 1870, Stefano Jacini, Sulle condizioni della cosa pubblica in Italia dopo il 1866, contrapponeva l’Italia reale alla Italia legale del primo ventennio di storia unitaria, non connotando certamente l’espressione di un significato positivo e presagendo i problemi che ne avrebbero accompagnato le sorti: <<C’è un’Italia reale che non è l’Italia legale, e che tende anzi a ribellarsi a quest’ultima. L’Italia reale, se non si saprà prevenirla ed appagarla con intelligenza, finirà per vincere e per foggiarsi, per una via o per un’altra, una nuova Italia legale, ma con pericolo di far ciò né consciamente né razionalmente>>. Viene da chiedersi se – né consciamente né razionalmente – la legalità sia tenuta oggi in onore nella cultura diffusa del paese unificato, fino al punto da temere che la visione jaciniana possa offrire conforto se non riscontro a certe valutazioni negative che in anni recenti neo-oppositori della unificazione italiana rivolgono alle modalità della “conquista” piemontese del regno del Sud, fino alla assoluzione neo-borbonica del fenomeno del brigantaggio meridionale, che appunto si sarebbe scontrata con l’Italia legale della “legge Pica”. Quanti altri capitoli della storia “sudista” potrebbero comprovare questa condizione di “rifiuto popolare” dell’Italia legale, fino a tollerare (come ha spesso tollerato) camorra e mafia come realtà inestinguibili ?
Il problema è dunque vitale. Ed invece, proprio sul principio di legalità, altri autori meridionali (o meritoriamente meridionalisti) di grande impegno hanno puntato sin dai primi decenni di vita unitaria hanno puntato la propria attenzione allo scopo di superare, a proposito della questione del Mezzogiorno, la condizione di arretratezza che si nutriva di illegalità e che profondamente gravava sulle sorti italiane del regno del Sud, tanto da determinarne la debolezza e la dipendenza nel nuovo assetto nazionale. Da Turiello a Villari, da Sonnino e Franchetti a Fortunato, negli anni Settanta dell’Ottocento la richiesta di legalità appariva l’unica strada per sconfiggere il neo-feudalesimo che appesantiva ogni possibile azione di riscatto delle regioni meridionali, penalizzandone ogni scatto verso lo sviluppo.
Insomma, se proprio l’illegalità (dal brigantaggio, sfuggito alla sua originaria natura di rivolta sociale, alla camorra e alla mafia, complici del clientelismo e della “separatezza della classe politica ed amministrativa denunciata da Jacini) appare il collante che legava i “manutengoli” possidenti al formarsi di nuovi assetti sociali e di potere neofeudale nelle campagne, come le forme urbane della rinnovata criminalità organizzata si dimostravano capaci di influenzare uno sviluppo distorto della classe politica, tutto ciò finiva per favorire l’accumulo di privilegi a danno delle classi popolari anelanti alla giustizia sociale nel nuovo Stato. L’Italia “reale” che si manifestava nelle regioni meridionali col perverso intreccio tra illegalità mafiosa e camorristica, clientelismo e cattivo funzionamento delle istituzioni pubbliche, in specie locali, era davvero “popolare” e benefattrice delle popolazioni del Sud, o piuttosto la opprimeva e sfruttava, come sarebbe accaduto anche in futuro, e la difficile democrazia su cui scommettevano Francesco De Sanctis e Giustino Fortunato aveva assoluto bisogno di una altra e diversa Italia “legale” ?
Si pensi alle parole di Pasquale Villari già nel 1875 (<<quello che la legge non sembra sospettare e che molti ignorano, si è che la camorra non si esercita solo negli ordini inferiori della società: vi sono anche camorristi in guanti bianchi ed abito nero>>) o a quelle del toscano Leopoldo Franchetti, nel medesimo anno, a proposito delle Condizioni economiche ed amministrative delle provincie napoletane (<<la nuova legislazione amministrativa ha confermato e completato questa dipendenza. Le nostre leggi hanno affidato gl’interessi locali alla popolazione abbiente d’ogni luogo>>), fino a Giustino Fortunato, nel 1879, che con preoccupazione denunciava <<l’ “alta camorra”, che trae alimento per opera della borghesia, né commerci e negli appalti, nelle adunanze politiche e nelle pubbliche amministrazioni>>, o alla sintesi fornita da Paquale Turiello, che nel 1882, in Governo e governati in Italia, denunciava che la vita delle popolazioni meridionali e dell’intera nazione venisse consegnata alla illegalità: <<comuni, province e collegi elettorali si conquistano e si perdono spesso per virtù d’associazioni d’interessi e violenze, che son segno della subordinazione brutale de’ molti a’ pochi, de’ clienti a’ patroni. In quel campo stesso, più giù, dove è plebe pura, non elettori né eleggibili, prevalgono più rozzamente il camorrista in città ed il brigante in campagna>>.
Il tema dunque era chiaro –anche in tutte le sue implicazioni future – a quella generazioni di testimoni delle asprezze attraverso cui veniva forgiata l’etica pubblica dell’Italia unita. Franchetti pochi anni dopo la denuncia di Jacini, nel 1877, descriveva nelle Condizioni politiche e amministrative della Sicilia le questioni che ponevano la legalità come il vero grande nodo dello sviluppo civile e sociale del Sud, ostacolato dal ceto ristretto dei privilegiati e dal ricorso costante alla illegalità: <<Se l’interesse generale sta principalmente nella pubblica sicurezza, nell’impiego a vantaggio di tutti del pubblico patrimonio, nell’applicare in modo uguale per tutti le leggi di ogni specie, gli interessi di quei pochi sono contrari a quelli dell’universale, giacché quello che per loro importa più è di mantenere la propria autorità, e questa si fonda in parte, ne abbiano essi o no coscienza, sul proteggere e sul mantenere in stato i malfattori; e si fonda del tutto sull’assicurare a sé, e più che a sé ai propri clienti, sotto una forma o sotto un’altra, l’utile dei patrimoni pubblici di ogni specie; finalmente sul far prevalere, ovunque sia bisogno, a vantaggio proprio e dei clienti, la propria volontà, sopra quella della legge>>.
Quasi a mostrare il nesso non contraddittorio tra la denuncia jaciniana dell’Italia legale come forma della separatezza di ristretti ceti esercitanti a proprio vantaggio il potere a danno del popolo (l’Italia reale) e la denuncia meridionale e franchettiana della illegalità che favorisce pochi privilegiati innervando l’intera società meridionale di una cultura pubblica priva di etica e di rispetto per l’interesse comune, il toscano Sidney Sonnino in Contadini in Sicilia, nello stesso 1877, puntava l’indice contro la sopravvivenza di un neofeudalesimo corruttore di quella società anche dopo le leggi di abolizione della feudalità: <<Quella che era stata fino allora potenza legale, rimase come potenza o prepotenza di fatto, e il contadino, dichiarato cittadino dalla legge, rimase servo ed oppresso>>.
Del resto il neofeudalesimo come forma sopravvissuta che metteva a rischio il principio stesso della legalità e dello Stato di diritto era fenomeno evidente per il napoletano Pasquale Turiello che aveva offerto una piena descrizione – concorde in essa con Franchetti e Sonnino – di un fenomeno che avrebbe segnato la storia della legalità in quello che era stato il Regno di Napoli, legando neofeudalesimo, clientela, criminalità organizzata: <<la clientela, naturale transizione dagl’infimi legami della camorra e della mafia a quelli nobilissimi del partito politico, è la forma naturale, nella quale riapparisce il periodo feudale, per quel che non è esaurito delle condizioni e necessità sue, nelle convivenze italiane meno progredite e più disciolte. Dove la legge sola troncò i rami della feudalità e del governo assoluto, e dove si riforma molto lentamente il costume, quivi, come il Franchetti nota della Sicilia, rimane un grande intervallo di anarchia tra l’azione limitata dello Stato e quella prepotente degli individui>>.
Solo tenendo conto delle radici si può dunque dar conto della centralità del tema della legalità per la nostra vita collettiva e di quanto sia indispensabile che una nuova Italia legale vinca e si foggi consciamente e razionalmente, come auspicava Stefano Jacini, ritrovando e superando ogni separatezza verso l’Italia reale.
Giuseppe Acocella