Di frasi mitiche – e discutibili – Piercamillo Davigo ne ha pronunciate diverse. Da quella del 7 dicembre 1994 sul Corriere della sera: “Io invece vi dico: rivoltiamo questo paese come un calzino”. A quella in cui sostiene che “il segreto istruttorio è posto a tutela dell’attività investigativa, non dell’onorabilità dell’inquisito”. Siamo in pieno clima di Mani pulite e la voglia dei p.m. di fare pulizia a volte esorbita dalla tutela dei diritti degli indagati, come puntigliosamente documenta Matteo Feltri nel libro “Novantatré – L’anno del terrore di Mani pulite”.
Stavolta però come non dare ragione all’ex p.m. del pool Mani pulite, diventato nell’aprile di quest’anno presidente dell’Associazione nazionale magistrati, quando dichiara: “il potere politico compie un errore gravissimo quando, di fronte ad episodi di corruzione, si limita a dire che occorre attendere che la giustizia faccia il suo corso”. E, ancora, che questo atteggiamento “è una sorta di delega alla magistratura a compiere una selezione della classe dirigente. Ma la politica dovrebbe invece dimostrare una propria autonoma capacità di valutazione rispetto ai procedimenti giudiziari.”
A ventitré anni di distanza la questione rimane sempre la stessa: è la politica che deve autogestirsi sul fronte della legalità o ha bisogno di “aiutini” da parte della magistratura per fare pulizia nel suo interno? E la risposta resta unica anche alla luce degli eventi, non tutti dai chiari connotati legali, della stagione Tangentopoli. Nessuna delega palese o nascosta al potere giudiziario: è la politica, i partiti, che devono svolgere il proprio ruolo d’individuazione e, soprattutto, selezione della propria classe dirigente. Troppo comodo rifugiarsi nel legalismo ad oltranza del “solo dopo tutti i gradi di giudizio un soggetto può essere ritenuto colpevole.” Difronte a politici in odore di mafia, camorra, ‘ndrangheta, o corrotti e corruttori, aspettare i verdetti della magistratura significa essere conniventi. Significa dare un’immagine all’elettorato di “utilizzo” dei potentati dell’illegalità, della corruttela, della strumentalizzazione della politica per fini che con la gestione della polis non hanno nulla a che spartire. Si corre il rischio dei facili fraintendimenti e semplificazioni, che portano i populisti di professione a denigrare il sistema dei partiti che è alla base della democrazia. Ma si corre anche il rischio di spingere la magistratura, o pezzi di essa, a svolgere ruoli di surroga della politica che non gli competono e che si possono trasformare in boomerang.
Lo stesso discorso vale per le varie organizzazioni di rappresentanza della società civile. Proprio perché perni vitali del sistema democratico, non possono ignorare, come purtroppo avviene, basilari norme del vivere civile, al di là delle regole democratiche, premiando sempre e comunque i fedeli al potere del momento, quelli che si schierano costantemente con il vincitore, anche se questi non sono proprio stinchi di santo. Certe superficialità interessate alla fine si pagano con la credibilità di tutto un sistema.
Gli scandali di questi giorni danno la misura di quanto c’è da lavorare nel nostro Paese per voltare pagina. Per affrontare le questioni relative alla legalità non utilizzando due pesi e due misure. Se il problema riguarda il partito rivale, o l’avversario, tutto ok nell’invocare la trasparenza assoluta, il rispetto della legalità senza se e senza ma. Se, per converso, la questione tocca soggetti del proprio raggruppamento politico, allora tutte le scuse sono buone per giustificare, minimizzare, essere garantisti ad oltranza.
Certe botte e risposte tra partiti, registrate ultimamente sulle questioni relative alla legalità, non aiutano a fare chiarezza. Non autoassolvendosi e gridando contro il cattivo di turno, o presunto tale, si risolvono i problemi. Anzi, si aggravano. Nell’opinione pubblica, proprio per l’interesse mediatico che le questioni attinenti alla gestione della cosa pubblica si portano dietro, lo scarico generalizzato delle responsabilità, e le accuse reciproche, fanno nascere sentimenti generalizzati di diffidenza e di qualunquismo verso tutti i partiti. Insomma, su certi argomenti “più spari sugli altri più puoi morire per fuoco amico”.
Sulle questioni concernenti la legalità ci vorrebbe un “patto di lealtà” fra tutti i partiti per evitare strumentalizzazioni ma, soprattutto, per allontanare chi non ha tutte le carte in regola, senza aspettare il timbro della magistratura.
Stavolta ha proprio ragione Piercamillo Davigo: nessuna delega dei partiti alla magistratura, né, dall’altra parte, nessuna ipotesi di rivoltare l’Italia come un calzino. Non servirebbe a niente. A ognuno il suo ruolo.
di Elia Fiorillo
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